Fiabe e Racconti popolari siciliani

Eroe lotta col mostro

Dalla raccolta in quattro volumi di Fiabe, novelle e racconti popolari siciliani che Giuseppe Pitrè diede alle stampe nel 1875. Fiabe e racconti in dialetto siciliano, trasposte sulla pagina così come le aveva ascoltate dalla viva voce dei suoi novellatori e e delle sue novellatrici: un'operazione condotta con uno scrupolo che non ha l'eguale in nessun altro repertorio della fiaba europea, nemmeno in quello dei fratelli Grimm.

Online Fiabe Novelle e Racconti popolari siciliani in dialetto(Progetto Manuzio)

Perodi Emma: Le novelle della nonna

€8,00
Newton Compton 2003 pagine 550, Rilegato con copertina, come nuovo

Recensione





Considerazioni su Don Giuvanni Misiranti (Pitre' LXXXVII)


di Salvatore La Grassa, clicca qui per leggere il racconto siciliano

Questa favoletta mette in evidenza la connessione tra una persona capace di tramare e sfidare il destino e la leguminosa che nella cultura greca aveva una dimensione misterica, ovvero la fava. Sulla fava la cultura greco-romana ha imbastito molteplici credenze, qualcuna di queste aveva una consistenza realistica, quasi tutte erano frutto di supposizioni. Secondo Columella e probabilmente anche per cultori di agricoltura antecedenti, la fava e il lupino erano le leguminose con cui seminare ogni due, tre anni i campi cerealicoli per preservarli dalla sterilità. Tutte le altre credenze sulla fava sono supposizioni oppure hanno una dimensione rituale. Per esempio secondo i seguaci di Pitagora e secondo Porfirio era considerato cannibale chi mangiava fave. Per Porfirio, filosofo greco vissuto nel III secolo dopo Cristo, il divieto di nutrirsi di fave nasce proprio da una stessa originaria putredine, all’inizio della storia del mondo, si erano infatti generati sia gli esseri viventi che le piante e, in particolare, sia gli uomini che le fave. Le fave quindi, mistura di principio vitale maschile e femminili, miscuglio di sperma e sangue, lontani parenti del genere umano, rappresenterebbero la generazione stessa e mangiarle sarebbe un atto di cannibalismo in quanto vita in potenza(Porfirio, Vita di Pitagora, 44).
Le fave, con altri legumi, erano cibo in offerta ai morti e, nelle ricorrenze in cui si ricordavano i morti, fave e altri legumi erano disseminate sulle tombe. C'era la credenza che l'anima di un defunto entrasse nelle piante delle fave. La donna fertile che mangiava le fave, trattenendo le corregge dovute alla manducazione del legume, poteva trasmettere lo pneuma ai nascituri. Tale credenza che si trova nella commedia Gli acarnesi di Aristofane fa il paio con l'altra credenza, precisata anch'essa in Aristofane nella sua comedia Le rane, che voleva che il macco di fave fosse un afrodisiaco, almeno per uomini come Eracle.
Presso i greci e i romani le fave avevano connessioni con gli inferi e il mondo dei morti, sia perché agivano in maniera occulta sui terreni in cui erano coltivate, sia perché a volte portavano sofferenze e persino la morte a qualche persona che le mangiava. Allora non si conosceva esattamente come e perché mangiare fave portava alla morte dopo importanti sintomi di sofferenza, ma già nel 6° secolo a.C. Pitagora ne rilevava la pericolosità. Le fave erano considerate un cibo impuro e durante le celebrazioni di alcuni riti, come i famosi riti di Eleusi, dedicati alle Due Dee(Demetra e Persefone) era proibito mangiarle. Secondo Plinio il vecchio(Historia, XVIII, 119) si credeva che la fava fosse l’unico cereale che, pur rosicchiato, si riempiva di nuovo quando la luna era crescente.
Nel racconto della Messia la fava raccolta da Don Giuvanni Misiranti è la sua sorte. In molte contrade italiane c'era una tradizione per San Giovanni, il 23 giugno, che prediceva la sorte di una ragazza nubile in cerca di marito. Le ragazze mettono sotto il guanciale tre fave: una col guscio, una senza, e l’altra con metà guscio. A qualunque ora si sveglino, prendono a caso, con gli occhi chiusi senza vedere, una delle tre fave. Se prendono quella col guscio, lo sposo sarà ricco; se quella senza guscio, sarà povero; se la sgusciata a metà, lo sposo sarà di mediocre fortuna. Quindi il racconto siciliano trovava fondamento in questa connessione tra le fave e la sorte delle ragazze in età da marito.
Ma cosa succede nella mente di Don Giuvanni Misiranti? Dopo aver trovato la fava a terra Don Giuvanni fa il sogno di diventare un grosso commerciate di legumi. Ci vorrebbero 6, 7 anni e più per realizzare quel sogno e investimenti e duro lavoro, senza considerare le incertezze circa la coltivazione e la raccolta delle fave. A questo punto Don Giuvanni è preso dal raptus del giocatore che bara. Ovvero si adopera per raggiungere la fase finale del suo sogno, ovvero affittare i magazzini dove mettere la quantità di legumi che potrà avere tra 7 anni e più. Nella casa dei proprietari dei magazzini incontra la figlia dei proprietari e qui il lampo geniale del baro: chiedere in sposa la loro figlia per ottenere la sua dote. Forse quella ragazza era grannuzza, aveva una certa età? Una volta le donne dopo i trenta venivano considerate delle vecchie zitelle. Forse non era avvenente? Fatto sta che i suoi genitori credono soprattutto alle apparenze, non chiedono informazioni sul conto del sedicente commerciante e accettano la sua proposta.
Il racconto della Messia è simile a quei racconti che hanno il gatto come aiutante, ovvero del tipo 545 secondo Aarne e Thompson: "The types of the folk-tale" Helsinki, 1928. Si ricordano il racconto dello Straparola (Le piacevoli notti, 11^ notte, favola I, la gatta di Costantino Fortunato), quello del Basile (Pentamerone, Cagliuso, II, 4) e il Gatto con gli stivali di C. Perrault. In questi racconti la trovata geniale la trova il gatto, unica eredità di un giovane di una famiglia molto povera.
Ma Don Giuvanni Misiranti fa tutto da solo, avendo una cieca fede nella sua sorte, ovvero una fava raccolta da terra cui tiene moltissimo e da cui non si distacca mai. In effetti egli si comporta come quei nobili scialaquatori del proprio patrimonio che cercano di stare a galla sposando donne ricche che possano portare una dote. Camperanno veramente felici e contenti Don Giuvanni, la moglie e i suoceri? Probabilmente sì, se ad amministrare sarà il suocero. No, nel caso che Don Giuvanni voglia nel contempo amministrare e vivere scialacquando.
In ultima analisi il racconto della Messia non presenta intenti moralistici. Forse mette sull'avviso chi si affida alle apparenze. Ma, sembra suggerisca che bisogna pur avere una maschera per stabilire dei rapporti soddisfacenti con il prossimo.
Da mettere in evidenza che la Messia, verso la fine del racconto, immette una sua personale nota realistica in una favola contraddistinta da fatagione. Cioè rende fortemente realistica la proprietà fatata di Don Giuvanni Misiranti in quanto la fata-sorte gli porge tutti gli incartamenti che lo rendevano effettivamente proprietario davanti alla legge. Ne lo Straparola, ne il Basile, ne il Perrault, nei racconti sopra citati, avevano pensato a tanto.

Fave intere, fave sgusciate, fave semisgusciate, fave pronte per essere messe sotto il cuscino di una ragazza da marito e pronosticare la sua ventura



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