Lo cunto de li cunti, di Giambattista Basile. Tipi, motivi dei cunti e considerazioni III giornata.

Tipi e motivi dei cunti in accordo con Aarne e Thompson: "The types of the folk-tale" Helsinki, 1928, e in accordo con Stith Thompson:"Motif-index of folk-literature" Helsinki 1932.Da Norman Mosley Penzer, The Pentamerone of Giambattista Basile Londra 1932 con traduzione e qualche aggiunta di Salvatore La Grassa(SLG)

Online Il cunto de li cunti in dialetto napoletano a cura di Michel Rak(su letteraturaitaliana.net

Online la prefazione all'opera di Benedetto Croce e i cunti di I e II giornata con testo in dialetto conforme alla stampa del 1634

I cunti delle giornate III, IV e V con testo in dialetto conforme alla stampa del 1634


Corvetto(III giornata, 7° cunto)


Tipi:
531. Il cavallo astuto.
1525. Maestro ladro(il briccone).

Motivi:
B211.3. Il cavallo che parla.
D2003. La fidanzata dimenticata(questo motivo non si trova nel cunto ma in varianti che si complicano per la maledizione di una vecchia cui il protagonista da bambino aveva dato fastidio-slg).
G0. Orco nel bosco con moglie e figlio.
G610.3. Il furto ai danni dell'orco come prova di valore.
H911. Imprese assegnate su richiesta dei rivali gelosi.
Motivi non rilevati dal Penzer:
1) Eroe uccide orca, madre da un giorno, tagliandole la testa(slg).
2)Eroe scuro(Corvetto) che va nell'oltretomba, nell'altro mondo.



Il cunto nella traduzione di Benedetto Croce

Corvetto, invidiato per le sue virtuose qualità dai cortigiani del re, è mandato a diversi pericoli, ne esce con grande onore a maggior dispetto dei suoi nemici, e gli è data, infine, l’infanta per moglie.

Avevano gli uditori preso tanto interessamento alla persona di Belluccia che, quando la videro maritata, ne furono cosi lieti e festanti come se quella giovinetta fosse uscita dalle reni loro. Ma il desiderio di ascoltare Ciulla pose tregua all’applauso e gli orecchi rimasero sospesi al moto delle labbra di costei, che cosi parlarono:
Udii narrare una volta che Giunone, per trovare la Bugia, andò a Candia. Ma se uno mi domandasse dove veramente possa trovarsi l’infingimento e l’impostura, io non saprei insegnargli altro luogo che la corte, dove sempre si giuoca alle maschere, e la mormorazione fa da Trastullo, la maldicenza da Graziano, il tradimento da Zanni e la furfanteria da Pollicinella; dove, a uno stesso tempo, si punge e si unge, si spezza e s’incolla. Di ciò vi mostrerò solo un ritaglio col racconto che sto per farvi sentire.
C’era una volta al servigio del re di Fiumelargo un giovane molto dabbene, chiamato Corvetto, che, pei suoi buoni comportamenti tenuto in cuore dal padrone, era per la stessa causa odiato e mal digerito da tutti i cortigiani. Pipistrelli d’ignoranza, essi non potevano mirare il lustro della virtù di

Corvetto, il quale a danaro contante di buone azioni si comperava la grazia del signore. Le aure dei favori, che gli largiva il re, erano scirocco all’ernia di quegli schiattanti d’invidia; tal ché non facevano altro, per tutti i cantoni del palazzo e a tutte le ore, che mormorare, sussurrare, bisbigliare, brontolare, borbottare e sforbiciare addosso a questo pover’uomo, dicendo:
« Quale fattucchieria ha gettata sul re quest’animalone, da farsi cosi ben volere? Quale fortuna la sua, che non passa giorno che non abbia qualche aggiunta di favori? E noi sempre an diamo indietro, come coloro che tirano la fune, e sempre scapitiamo di condizione! Eppure serviamo come cani; eppure sudiamo come zappatori e corriamo come daini per imbrocca re a perfezione il gusto del re. Veramente bisogna nascere fortunati a questo mondo, e chi non ha ventura si gitti a mare: in ultimo, gli tocca vedere e crepare».
Queste e altre parole uscivano dall’arco della bocca loro, ed erano frecce avvelenate, che andavano al bersaglio della rovina di Corvetto. Oh misero chi è condannato all’inferno della corte, dove le lusinghe si vendono a quadretti(1)e i mali uffici si misurano a tomoli e i tradimenti si pesano a cantari! Ma chi può dire la quantità di bucce di cocomero, che gli po sero sotto i piedi per farlo sdrucciolare?Chi può descrivere il sapone della falsità, che spanderono sulla scala delle orecchie del re, affinché il povero giovane capitombolasse e si rompesse la nuca del collo? Chi può narrare le fosse d’inganni, scavate dentro il cervello del padrone, coperte dalle frasche di buon zelo, perché quegli vi precipitasse al fondo?
Ma Corvetto era fatato, e vedeva i tranelli e scopriva i trabocchetti, e conosceva le matasse, e s’accorgeva degl’imbrogli, delle insidie, delle trappole, delle tagliuole, delle trame e delle furfanterie degli avversari; e stava sempre con gli orecchi tesi e con gli occhi aperti per non smarrire il filo, sapendo che la fortuna dei cortigiani è di vetro. Pure, quanto più continuava questo giovane a salire, tanto maggiore
era la discesa di malumore negli altri, che, non sapendo in ultimo con qual mezzo levarselo dai piedi, dacché le maldicenze intorno a lui non acquistavano fede, pensarono di condurlo per la strada delle lodi a un precipizio e spingervelo giù (arte inventata a casa calda(2) e perfezionata nella corte); e questo tentarono nel modo che ora dirò.
Stava a dieci miglia dalla Scozia, che era la sede di questo re, un orco, il più bestiale e selvatico che fosse mai nell’orcheria. Perseguitato dal re, costui si era fortificato in un bosco avviluppato sopra una montagna, che non vi volavano nemmeno gli uccelli, e tanto intricato che non poteva mai ricevere la visita del Sole. Aveva quest’orco un bellissimo cavallo, che pareva fatto col pennello, e al quale, tra le altre bellezze, non mancava neppure la parola, perché, per fatagione, parlava come noi altri.
Ora i cortigiani, che sapevano quanto malvagio fosse quell’orco, quant’aspro il bosco e quanto alto il monte, e quanto difficile prendere il cavallo, si misero attorno al re, contandogli minutamente le perfezioni di quest’animale, e che era cosa degna di re, e perciò doveva procacciare per ogni via e maniera di toglierlo dalle branche dell’orco; e che da questa impresa Corvetto sarebbe stato capace di cavar le mani, come giovane esperto e atto a tirarsi fuori dal fuoco. Il re, che non sapeva che sotto i fiori di queste parole giaceva il serpente, fece venire subito a sé Corvetto e gli disse: «Se mi vuoi bene, vedi d’avere per ogni modo il cavallo dell’orco, mio nemico; ché ti chiamerai contento e consolato d’avermi reso questo servigio».
Corvetto, quantunque conoscesse che questo tamburo era suonato da chi gli voleva male, pure, per obbedire al re, s’avviò verso la montagna, e, penetrando quatto quatto nella stalla dell’orco, sellò il cavallo, e, montatovi coi piedi forti nella staffa, prese la via dell’uscio. Il cavallo, vedendosi spronare fuori del palazzo, gridò: «All’erta, ché Corvetto mi porta
via!». Al grido, scese l’orco con tutti gli animali che lo servivano, e di qui vedevi un gatto mammone, di là un orso del principe1, da questa parte un leone, da quella un lupo, da quell’altra un lupo mannaro, per ridurlo a brani. Ma il giovane, a forza di buone tirate di briglia, s’allontanò dalla montagna, e, galoppando verso la città, giunse alla corte. Qui, al presentare ch’egli fece il cavallo, il re lo abbracciò con maggiore tenerezza che se gli fosse stato figlio, e, posta la mano a una borsa, gli empi le palme di patacconi. Fu questa una buona giunta di rabbia al vestito dell’invidia dei cortigiani; e, dove prima si gonfiavano con la cannella, ora crepavano a soffiate di mantici, vedendo che i piccioni, coi quali si pensavano di sfabbricare la buona sorte di Corvetto, servivano invece a spianargli la strada per il maggior utile suo.
Tutta volta, sapendo che non al primo urto di macchina bellica si rompe la muraglia, vollero tentar la seconda fortuna, e dissero al re: «Sia con la buon’ora il bel cavallo, che veramente sarà l’onore della stalla reale! Cosi aveste voi il paramento dell’orco, che è una cosa che non si può dire: la fama vostra potrebbe andare per le fiere! E nessun altro può
accrescere di questa ricchezza il tesoro vostro, se non Corvetto, che ha una mano fatta apposta per questa sorta di servigi».
Il re, che ballava a ogni suono, e di cotesti frutti, amari bensì ma inzuccherati, mangiava solo la corteccia, chiamò Corvetto e lo pregò di fargli avere il paramento dell’orco. E Corvetto non replicò parola, ma in quattro salti fu alla montagna dell’orco, ed entrato senz’esser visto nella camera in cui quello dormiva, si nascose sotto il letto ed aspettò
accovacciato fin all’ora in cui la Notte, per dar da ridere alle stelle, fa un libro di carnevale in faccia al Cielo. E, dopo che l’orco e la moglie si furono coricati, egli staccò zitto zitto il paramento della camera; e, volendo portarsi via anche la coltre, cominciò a tirarla dal letto pian piano. Si svegliò l’orco e disse alla moglie che non tirasse tanto perché lo scopriva tutto e gli avrebbe fatto venire qualche mal di ventre. «Anzi tu scopri me, —rispose l’orca, — ché non mi è rimasto niente addosso». «Dove diamine è andata la coperta?» — replicò l’orco, e, cercando con la mano verso terra, toccò la faccia di Corvetto. «Ilmonachetto, il monachetto! — si mise allora a gridare: — genti, candele, accorrete!». A queste voci, tutta la casa fu sottosopra. Ma Corvetto, che aveva gettato i drappi dalla finestra, si lasciò cadere sopr’essi, e, fattone un bel fardello, trottò alla volta della città. E non si possono dire le carezze che gli usò il re, e il dispetto che ne provarono i cortigiani, Ì quali scoppiavano dai fianchi.
Con tutto ciò, fecero pensiero di dare addosso a Corvetto con la retroguardia delle loro bricconerie. Era il re tutto
gioioso pel piacere di possedere quei paramenti, i quali, oltre ad essere di seta ricamati d’oro, portavano istoriate più di millanta imprese di vari capricci e pensieri; e, tra gli altri, se mal non ricordo, un gallo in atto di cantare per l’Alba che sorgeva, con un motto in toscano: «Sol ch’io ti miri»; e cosi anche un fiore elitropio afflosciato, con un motto parimente toscano:«Al cader del sole»; e tanti e tanti altri, che ci vorrebbe assai più memoria e assai più tempo a contarveli tutti. Avendo, dunque, i cortigiani trovato il re lieto e giubilante, gli dissero: «Corvetto ha fatto tante e cosi belle imprese in vostro servigio, che non sarebbe un granché se, per farvi un piacere segnalato, vi facesse avere il palazzo stesso dell’orco, che è degna stanza d’un imperatore, e, anzi, ha un numero cosi immenso di camere dentro e fuori, che può starvi un intero esercito, e non riuscireste a immaginare quanti sono i cortili, i supportici, le loggette, i gaifi(3), le latrine a caracò(4) e le ciminiere costruite in tufo, con tanta architettura, che l’arte vi si picca, la natura cede vinta e lo stupore vi sguazza».
Il re, che aveva cervello prolifico che subito s’ingravidava, manifestò a Corvetto il desiderio che gli era
nato del palazzo dell’orco, e che ai tanti gusti che gli aveva dato facesse quest’aggiunta, che l’avrebbe scritta col carbone dell’obbligo nell’osteria della memoria. E Corvetto, ch’era uno zolfanello e taceva cento miglia l’ora, si mise subito le gambe addosso e pervenne al palazzo dell’orco.
L’orca aveva allora partorito e aveva fatto un bell’orchicello; e il marito era uscito a convitare i parenti, mentre la puerpera, levatasi di letto, tutta si affaccendava a preparare il pranzo. Corvetto, entrato con una faccia da martello, disse:«Bentrovata, magna femmina! Bella massara mia, e perché rovinare cosi la tua salute? Ieri hai partorito, e ora t’affatichi tanto, e non hai compassione delle carni tue».«Che vuoi ch’io faccia, — rispose l’orca — se non ho chi mi aiuta?». «Sono qua io — replicò Corvetto — per aiutarti a calci e a morsi». «Sii il benvenuto — disse l’orca; — e, giacché ti sei offerto con tanta amorevolezza, aiutami a
spaccare quattro pezzi di legna».«Digrazia, — replicò ancora Corvetto, — se non bastano quattro, siano cinque». E, nel dir cosi, prese un’accetta affilata di recente e, invece di dare sul legno, dette sulla nuca dell’orca e la fece cadere a terra come una pera. Corse poi presto all’entrata della porta, scavò un fosso profondo e lo ricopri di frasche e di terra, e si mise a spiare dietro la porta.
E, quando vide venire l’orco coi parenti, gridò dal cortile:
« Testimonianza vostra!(5)Alto là, e viva il re di Fiumelargo!». L’orco, che senti questa bravata, si lanciò come una folgore verso Corvetto per farne una salsa; ma, entrando a furia pel supportico, lui e i parenti dettero tutt’insieme i piedi nella fossa e rotolarono al fondo, dove Corvetto, a colpi di pietra, ne fece una schiacciata. Chiuse poi la porta e ne portò la chiave al re.
Il quale, visto il valore e l’ingegno di questo giovane, a sfida della fortuna, a dispetto dell’invidia, a crepacuore dei cortigiani, gli dié la figlia per moglie; sicché a lui le traverse oppostegli dall’invidia furono falanche(6) per varare la barca della vita sua al mare delle grandezze, e i suoi nemici, confusi e schiattati, furono costretti ad andare al cesso senza candela: ché la debita pena del mal fare
tarda talvolta, ma non può mancare!

1)Come accadeva, e accade, per le vie di Napoli durante l’estate.
2)Inferno
3)Pei «gaifi», termine antiquato per indicare le logge
4)Con scale a chiocciola: spagn.«caraeoi».
5)Testo: «testimonia vostra, strunzo mmiezo»: con questa formula si chiamavano a testimoniare gli astanti.
6)Pezzi di legno incavati e ingrassati, usati per il varo di barche


I cunti della terza giornata



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