Prosper Merimée fu attrato dalla cultura, dalla vita dei Gitani,
dalle loro tradizioni antichissime, dalla loro visione del mondo. La parte
finale del suo racconto "Carmen" descrive questi usi e questi costumi.
Era di moda nell'élite culturale di metà Ottocento il mito del selvaggio
indomabile, non acculturabile alla nostra cultura. E in questo contesto Prosper
Merimée
inserì
una figura di donna assolutamente fuori dagli schemi della nostra cultura.
Carmen, dall'inizio alla fine del racconto, rimane una esclusa dalla società,
dalla società occidentale. Don Josè la vuole avere solo per
sè,
ma per Carmen tutto finisce se l'innamoramento ha termine e quindi
lo rifiuta e per questo viene uccisa. Tutta la tragedia gira attorno al possesso.
Nella lingua dei Gitani manca la coniugazione del verbo avere: non si dice "io
ho", ma "è a me". Non c'è presso i Gitani, rimasti
tali, una proprietà
individuale che si trasmette ai figli; tutto ciò che possedeva il
morto si deve bruciare, perchè continuare a usare le sue cose potrebbe
offenderlo. Quando Carmen si nega nel finale a Don Josè, è anche
nel rispetto di quest'ultimo: poichè Carmen non lo ama più,
perchè seguirlo, perchè fare finta di amarlo?
Il racconto
di Prosper Merimée e poi la Carmen di Georges Bizet ebbero un grande
successo perchè probabilmente anticipavano quelle istanze che volevano
pure una fine del rapporto matrimoniale civile, cioè il divorzio.
Non è un caso
che in Italia venissero presentati dai liberali progetti per
l'introduzione del divorzio in Italia nel 1878 con la
proposta
Morelli, cioè qualche anno dopo la rappresentazione della Carmen di Bizet,
la cui prima avvenne all'Opéra-Comique di Parigi il 3
marzo
1875.
Letizia Giuliani e Massimo Murru in Carmen con coreografia di Amedeo Amodio in
Maggiodanza presso il Giardino dei Boboli a Firenze.
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