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Si è tenuto al Ministero della Salute l’evento “La rete delle Breast Unit – Un modello integrato per la prevenzione, la diagnosi, la cura e la riabilitazione“.
Con Orazio Schillaci, ministro della Salute, Stella Kyriakides, Commissaria europea per la salute e la sicurezza alimentare, Alberto Costa, Special Adviser on Cancer Strategies della Commissaria Europea Kyryakides e Francesco Schittulli, Presidente LILT, presente anche una selezione di rappresentati del mondo clinico, tra cui il prof. Corrado Tinterri, direttore della Breast Unit di IRCCS Humanitas e coordinatore del Comitato tecnico-scientifico di Europa Donna Italia.
Il ministro ha sottolineato gli enormi passi in avanti compiuti grazie alla ricerca e alla diffusione delle Breast Unit.
«Nel 2023 – ha detto Schillaci – in Italia sono state stimate circa 56 mila diagnosi di tumore alla mammella che rappresenta la neoplasia più frequente nelle donne e purtroppo la prima causa di morte nella fascia d’età tra i 35 e i 50 anni. Ci sono però, per fortuna, anche numeri positivi: il dato di sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi è dell’88% e sono più di 834mila le donne viventi in Italia dopo una diagnosi di cancro al seno. Senza dubbio questi sono traguardi possibili grazie agli enormi passi avanti compiuti dalla ricerca che hanno reso disponibili terapie sempre più innovative e personalizzate e alla diffusione delle Breast Unit che garantiscono diagnosi precoce, interventi chirurgici secondo i più elevati standard e soprattutto una presa in carico multidisciplinare che credo sia la risposta migliore per una malattia come il cancro al seno».
Traguardi resi possibili dalle Breast Unit, «un modello di presa in carico che si è sviluppato proprio grazie all’impulso del Parlamento Europeo che a partire dalla fine degli anni 90 e soprattutto agli inizi degli anni duemila ha affermato il diritto delle donne affette da questa patologia ad essere curate in centri multidisciplinari e con precisi volumi di attività. E l’Italia si è adeguata alle indicazioni europee», come ha ricordato il ministro. Schillaci è intervenuto anche sul tema della diffusione delle Breast Unit sul territorio nazionale ricordando il lavoro svolto con le Regioni «per rendere sempre più capillare la presenza dei centri di senologia sul territorio nazionale che al 2022, secondo i nostri dati, risultano essere 194. E a dispetto di un’opinione diffusa non sono tutti concentrati nel Nord, ma sono ormai diffusi su tutto il territorio nazionale».
E sul valore delle Breast Unit la Commissaria UE Stella Kyriakides ha evidenziato: «In Italia ho visto un lavoro eccellente nel trattamento delle donne con tumore al seno in Breast Unit specializzate: questo per noi è un esempio che spero potremo condividere con altri stati membri».
Sul tema è intervenuto il prof. Corrado Tinterri: «La realizzazione delle Breast Unit è stata al centro del nostro impegno negli ultimi quindici anni. Istituite nel 2014, in seguito a campagne di sensibilizzazione e mobilitazione anche di Europa Donna, le Breast Unit sono il risultato di un’alleanza speciale tra associazioni di pazienti, istituzioni e mondo scientifico e hanno cambiato il paradigma di cura della paziente con tumore del seno. Basti pensare che nel 2010 solo il 12% delle donne veniva curato in Centri specializzati, mentre i dati del 2022 confermano che l’80% delle pazienti si cura nei Centri di senologia multidisciplinari. Un dato importantissimo, se si considera che la probabilità di guarire aumenta del 18% quando si viene curate all’interno di una Breast Unit».
Per saperne di più: Tumore al seno, Schillaci: enormi passi avanti compiuti grazie a ricerca e diffusione Breast Unit
The post Italia al top in Europa per efficienza delle Breast Unit appeared first on Humanitas.
MR-CT della Società Europea di Radiologia Cardiovascolare è il Registro più vasto mai pubblicato sul tema, che comprende i dati di oltre 432.000 esami di TC e RM cardiaca effettuati tra il 2011 e il 2023. Un recente studio, coordinato dagli specialisti di Humanitas e pubblicato sull’autorevole rivista European Radiology, ha analizzato l’enorme mole di dati raccolti dagli oltre 32 centri internazionali coinvolti nel registro, dimostrando come l’Imaging Cardiovascolare sia stato rivoluzionato negli ultimi 10 anni, diventando sempre più rilevante per la diagnosi e il trattamento delle malattie cardiovascolari.
Allo studio hanno partecipato, in particolare, Marco Francone, responsabile Imaging Cardiovascolare dell’IRCCS Istituto Clinico Humanitas e Professore Ordinario in Diagnostica per immagini e Radioterapia di Humanitas University, e la dottoressa Federica Catapano, radiologa e ricercatrice di Humanitas University.
I dati del Registro indicano che il ricorso alla diagnostica cardiovascolare avanzata con TC è quasi quintuplicato (tasso di crescita: 4,5) e con RM è quasi quadruplicato (tasso di crescita: 3,8) in 11 anni. Il numero di TC cuore prescritte annualmente è salito del 353%, raggiungendo i 15.267 esami nel 2023, mentre la RM è salita di quasi il 283%, arrivando a 13.183 esami nello stesso anno.
In accordo con le linee guida internazionali, l’indicazione clinica più frequente all’esame riguarda lo studio del cuore e delle arterie coronarie in pazienti con sospetta cardiopatia ischemica e la conferma diagnostica di sospetta miocardite (rispettivamente 59% degli esami TC e 47% delle RM).
Altri dati importanti sono quelli sulla sicurezza: la diagnostica con TC e RM cardio è sicura per il paziente (indice di eventi avversi inferiore a 0,5). Inoltre, questa diagnostica avanzata permette al clinico di riferimento di personalizzare il percorso terapeutico assistenziale sul paziente (targeted therapy), migliorando la qualità di vita della persona.
Il lavoro enfatizza la necessità di avere figure specialistiche dedicate per contribuire in misura rilevante a soddisfare le crescenti esigenze di un’assistenza competente ed efficace nell’Imaging cardiaco.
La diagnostica cardiovascolare avanzata è diventata il secondo settore più importante della Radiologia, subito dopo la diagnostica oncologica.
Cambia il modo di fare diagnosi cardiovascolare e diagnostica predittiva per i pazienti con cardiopatia ischemica – che è una delle indicazioni principali a TC e RM cardio – con miocarditi, ovvero l’infiammazione del cuore, e con cardiomiopatie, cioè gravi malattie genetiche che possono essere la causa di morte improvvisa.
La TC e la RM del cuore sono esami ampiamente utilizzati sul territorio, come dimostrano i dati analizzati del Registro, e la loro efficacia e sicurezza li rendono strumenti indispensabili nella diagnostica non-invasiva moderna.
The post Diagnostica cardiaca: i dati europei premiano TC e RM cuore appeared first on Humanitas.
Per sinusite (o più correttamente rinosinusite) s’intende l’infiammazione dei seni paranasali, ovvero le cavità pneumatiche scavate nel nostro volto, ma la definizione è ampia e può comprendere differenti condizioni cliniche. Il comune raffreddore, ad esempio, è una rinosinusite virale, che ha durata di pochi giorni. La congestione della mucosa nasale, tuttavia, l’aumento della produzione di muco e il rallentato trasporto ne favoriscono la colonizzazione batterica con la comparsa di una sintomatologia più durevole e importante come senso di peso al volto o dolore facciale, alterazione della percezione di odori e sapori, febbre. Il rischio è trascurare i sintomi esponendo così ad infezioni le basse vie respiratorie con evoluzione in bronchite o broncopolmonite.
Virus, batteri e più raramente funghi possono essere gli agenti patogeni della rinosinusite, ma non bisogna trascurare l’ambiente rinosinusale, ove si arriva a produrre fino a due tazzine di caffè di muco al giorno drenato in naso e faringe dal complesso anatomico più complicato del nostro organismo: il labirinto etmoidale. Oltre il fatto che la mucosa delle vie respiratorie interagisce di continuo con il mondo esterno ricoprendo un ruolo immunitario estremamente delicato.
Quali sono i sintomi della sinusite e come si cura? Ne parliamo con il dottor Luca Malvezzi, specialista in otorinolaringoiatria e chirurgia cervico facciale presso l’IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Rozzano.
L’infiammazione dei seni paranasali può presentarsi con diversi sintomi quali:
Il comune raffreddore benché possa avere sintomi intensi è di breve durata. L’irrigazione delle fosse nasali con soluzione fisiologica e l’umidificazione dell’ambiente nasale ne favoriscono una più rapida guarigione. Occorre non sottovalutare mai la ripetitività dei sintomi nel corso dell’anno, la presenza di muco giallo o verde o una sintomatologia estremamente intesa, ad esempio un mal di testa pulsante. E si raccomanda di non trascurare una lenta uscita dai sintomi maggiori, che rischia di trasformarsi nella tolleranza di uno stato di malessere cronico. In questi casi è bene riferirsi a uno specialista otorinolaringoiatra.
All’insorgenza dei primi sintomi la semplice detersione delle fosse nasali con soluzione fisiologica, il fumento con decongestionanti naturali come l’eucalipto, oppure un utilizzo – purché sia sempre limitato – di vasocostrittore può essere sufficiente. Il muco colorato (giallo o verde) è segno di colonizzazione batterica. Antibiotico ad ampio spettro – con posologia giornaliera e durata rispondenti allo standard of care – e steroide per via sistemica sono necessari. L’antibiotico agisce bloccando la replicazione batterica; il cortisone riduce il gonfiore della mucosa (effetto anti-edemigeno) favorendo l’evacuazione di muco dai seni paranasali verso naso e faringe al tempo stesso riducendo il dolore facciale da compressione. In caso di azione antalgica insufficiente, il paracetamolo può essere un completamento terapeutico. Meglio evitare i FANS (farmaci antinfiammatori non steroidei).
Nelle rinosinusite acute ricorrenti è auspicabile un corretto percorso clinico con TC del massiccio facciale in tre proiezioni senza mezzo di contrasto per identificazione delle condizioni anatomiche predisponenti la sinusopatia ed esclusione di comorbilità come allergia. La terapia sarà figlia di una strategia multidisciplinare.
La multidisciplinarietà diventa mandatoria nelle rinosinusiti croniche con o senza poliposi nasale, spesso una vera e propria sfida per i clinici. In questo caso è importante una buona comunicazione con il paziente, infatti, l’adeguato controllo dei sintomi della malattia non può prescindere dall’aderenza al piano terapeutico impostato dal pool di esperti.
Irrigazione nasale con fisiologica e utilizzo di corticosteroidi topici nasali (o topici orali se presente asma) rappresentano la base terapeutica nella patologia infiammatoria nasale cronica. Tuttavia, oggi la possibilità di cura di pazienti con sintomi ricorrenti è più ampia, sia grazie alle innovazioni in campo chirurgico che alle innovazioni in campo farmacologico.
In caso di presenza di concrezioni micotiche (funghi), sinusiti odontogene oppure rinosinusiti ricorrenti o croniche condizionate dall’anatomia di drenaggio del muco dai seni paranasali al naso la chirurgia endoscopica rinosinusale (FESS – Functional Endoscopic Sinus Surgery) non solo rappresenta il gold standard a livello internazionale, ma anche si dimostra terapeutica nel controllo del quadro clinico.
Diversamente la rinosinusite senza o con poliposi nasale associata ad un profilo infiammatorio T2, correlato ovvero ad alti livelli ematici e mucosali di eosinofili, può essere caratterizzata da un quadro clinico recalcitrante a terapia steroidea locale o chirurgia. Adeguato e multidisciplinare percorso diagnostico, adeguata chirurgia e opzioni terapeutiche alternative in caso di mancato controllo dei sintomi sono oggi le “armi” a disposizione dei clinici. Devono essere utilizzate nei tempi e nei modi corretti. Adeguata diagnosi significa identificare il profilo infiammatorio del paziente (endotipo), oltre che le caratteristiche di espressione della malattia (fenotipo).
Adeguata chirurgia significa in primo luogo affidare questa opzione a un chirurgo esperto. La chirurgia endoscopica rinosinusale deve creare spazi adeguati a un’ottimale azione del corticosteroide locale a limitare la ricomparsa dei sintomi. La FESS deve essere FULL, ovvero interessare tutti i seni paranasali.
In caso di mancato controllo del quadro clinico, il farmaco biologico, ovvero l’anticorpo monoclonale, oggi è un’opzione terapeutica valida, efficace e alternativa alla chirurgia.
Nuove prospettive potrà forse regalarci la REBOOT endoscopic sinus surgery. L’Otorinolaringoiatria di Humanitas vanta una fra le casistiche più ampie a livello mondiale. Reboot significa rigenerare: si tratta di un intervento difficile anche in mano a chirurghi esperti, che prevede, infatti, la rimozione del pannello mucoso di rivestimento dei seni paranasali caratterizzato da infiltrato infiammatorio eosinofilico. Diversamente da quanto si possa pensare, tale mucosa viene rigenerata non da cicatrice, ma da mucosa normale. Il controllo dei sintomi sul lungo periodo si dimostra soddisfacente.
I lavaggi nasali con soluzione fisiologica in prodotti preconfezionati o nella siringa senza ago rappresentano una fondamentale misura preventiva. Il lavaggio nasale contrasta i fattori portatori di infiammazione locale, come agenti inquinanti atmosferici, allergeni o l’essudato purulento nelle forme batteriche acute o nelle forme con poliposi nasale.
Occorre poi non sottovalutare i sintomi e rivolgersi in loro presenza allo specialista otorinolaringoiatra per una valutazione approfondita.
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La luce del sole è molto importante per il nostro organismo e una corretta esposizione solare apporta diversi benefici: aiuta la sintesi della vitamina D, contribuisce al rilascio della serotonina (il cosiddetto ormone del buonumore) e aiuta a riposare bene durante la notte.
Esporsi al sole però espone anche a seri rischi per la salute della pelle, soprattutto se non si utilizzano protezioni adeguate. E questo vale anche in primavera, quando ci si espone al sole dopo i mesi invernali.
Approfondiamo l’argomento con il professor Marco Ardigò, capo della sezione autonoma di Dermatologia Oncologica presso l’IRCCS Istituto Clinico Humanitas Rozzano.
Il sole primaverile non solo non è innocuo, ma può essere anche più dannoso rispetto a quello estivo, poiché i raggi UV raggiungono la massima intensità a partire da maggio e giugno, e non solo ad agosto, come comunemente si crede.
Inoltre, in primavera, la pelle non è preparata per affrontare esposizioni prolungate ai raggi solari. Le cellule responsabili della produzione di melanina, la sostanza che protegge la pelle dai raggi UV e che contribuisce all’abbronzatura, sono poco stimolate durante l’inverno e impiegano del tempo a riattivare le loro funzioni. Questo spiega perché è facile scottarsi al primo sole di primavera.
Esporsi al sole senza un’adeguata protezione, dunque, può determinare eritemi solari e ustioni, con rischio di infiammazione intensa, dolore ed edema.
Frequenti scottature solari, soprattutto se si sono verificate durante l’infanzia e la giovinezza, aumentano il rischio di tumori della pelle, come:
La maggior parte dei casi di melanoma, infatti, ha origine solare ed è dunque legato a un’esposizione eccessiva alle radiazioni ultraviolette.
Per proteggere la pelle dal rischio di tumori cutanei, melanoma incluso, è fondamentale difendere la pelle dai raggi UVA, responsabili del foto-invecchiamento cutaneo, e dagli UVB, responsabili delle scottature.
Per farlo è bene:
The post Sole in primavera: come proteggere la pelle appeared first on Humanitas.
La stagionalità è un fattore che influenza condizioni come l’umore, il sonno, l’appetito e il livello di energia nella popolazione generale. La primavera, per esempio, può anche favorire o acuire disturbi gastrointestinali, come il bruciore di stomaco.
Quali sono le cause del bruciore di stomaco in primavera e quali i rimedi? Ne parliamo con la dottoressa Roberta Elisa Rossi, gastroenterologa presso l’IRCCS istituto Clinico Humanitas e i centri medici Humanitas Medical Care.
Il bruciore di stomaco (noto anche come pirosi gastrica) si manifesta spesso durante la primavera e le cause possono essere diverse.
Per contrastare il bruciore e la pesantezza di stomaco, è importante fare attenzione alla propria alimentazione. Inizialmente, è consigliabile ridurre il consumo di alimenti ricchi di grassi di origine animale, come burro, uova, latticini e carni. Anche gli insaccati dovrebbero essere consumati con moderazione per lo stesso motivo, così come i cibi fritti, i piatti elaborati, le pietanze piccanti, i dolci e i piatti pronti che spesso sono ricchi di sale e conservanti.
Alcuni alimenti, come caffè, menta, cioccolato, bevande alcoliche, pomodoro, agrumi come limoni e arance, possono contribuire a peggiorare il reflusso acido, pertanto se ne consiglia un moderato consumo.
Invece, è consigliabile favorire l’inclusione di cereali integrali come riso e pasta, ricchi di fibre benefiche per la digestione. Per quanto riguarda le proteine, è consigliabile optare per carni bianche, pesce e legumi, preferibilmente cucinati al forno o al vapore.
La frutta è meglio consumarla cruda, a meno che non causi problemi di acidità: in tal caso, può essere preferibile consumarla cotta.
Infine, seguire un corretto stile di vita è di fondamentale importanza. Con corretto stile di vita si intende l’eliminazione di abitudine voluttuarie nocive quali il fumo di sigaretta ed il consumo di alcolici. Fondamentale è, inoltre, il controllo del peso corporeo attraverso una dieta sana ed equilibrata ed una costante e adeguata attività fisica. Mantenere una regolarità negli allenamenti, anche solo per mezz’ora al giorno con attività come camminata veloce, corsa leggera, marcia o ciclismo, può favorire la digestione migliorando la peristalsi intestinale, riducendo la tensione e aumentando il dispendio calorico.
In caso di disturbi digestivi, è sempre consigliabile rivolgersi in prima battuta al proprio medico curante. Se il problema perdura, è, invece, consigliabile consultare un gastroenterologo per una valutazione più approfondita e un trattamento mirato.
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La disidrosi (eczema disidrosico o pompholix) è una dermatosi cronica recidivante che colpisce le aree palmo-plantari, provocando la formazione di vescicole o bolle, che frequentemente interessano i palmi delle mani, le superfici laterali delle dita, la pianta dei piedi; spesso si associa a sensazione di forte prurito.
Quali sono le cause della disidrosi e come si cura? Ne parliamo con la dottoressa Chiara Perugini, dermatologa presso l’IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Rozzano.
La disidrosi può colpire persone di ogni età, seppur più frequente nell’età giovanile, ed è stata riscontrata una componente di predisposizione genetica e associazione con altre condizioni, quali:
Tra i fattori di rischio della disidrosi troviamo:
Il principale segno della disidrosi è la comparsa di vescicole e/o bolle che si sviluppano principalmente sulle dita delle mani, in particolare sulle superfici laterali, ma anche a livello dei palmi delle mani e della pianta dei piedi. Nei casi più gravi sono coinvolti anche il dorso delle mani e dei piedi e gli arti.
Le vescicole all’esordio possono avere dimensioni ridotte e possono presentarsi in piccoli gruppi; col progredire della patologia possono unirsi andando a formare lesioni di dimensioni maggiori. Le zone interessate dalle vescicole potrebbero risultare dolenti e/o pruriginose. Al termine del suo ciclo, in circa tre settimane, le vescicole si seccano, e si va incontro alla fase di desquamazione, finché la cute non si sfalda completamente lasciando spazio allo strato successivo di pelle nuova.
La disidrosi nelle persone predisposte ricompare ciclicamente per mesi o addirittura anni.
Quando la disidrosi non si risolve spontaneamente è opportuno consultare lo specialista dermatologo che, in sede di visita, raccoglierà informazioni su sintomi e storia clinica del paziente (anamnesi) e valuterà i sintomi della patologia (esame obiettivo). In caso vi sia il sospetto che la disidrosi sia provocata da un’allergia verranno eseguiti anche i test allergologici.
Il trattamento per la disidrosi viene valutato dallo specialista. Le terapie possono includere la somministrazione di antistaminici orali, corticosteroidi topici o farmaci corticosteroidi orali nei casi più severi, terapia con raggi ultravioletti, farmaci immunosoppressori.
Possono essere suggerite anche strategie quotidiane (emollienti, idratanti) volte al miglioramento dell’aspetto clinico cutaneo e alla riduzione delle recidive.
Non è possibile prevenire completamente lo sviluppo della disidrosi ma, in generale, è consigliabile mantenere sotto controllo i fattori di rischio, riducendo lo stress e l’esposizione alle sostanze considerate irritanti o utilizzare dei guanti protettivi quando ci si deve entrare in contatto. Anche lavare le mani con detergenti delicati e mantenerle idratate può aiutare a evitare lo sviluppo di disidrosi.
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La forma della superficie di una protesi è in grado di interagire in modi inaspettati con il sistema immunitario: micro avvallamenti o conche utilizzati per rendere la protesi più ruvida e stabile possono intrappolare le cellule del sistema immunitario, generando uno stato infiammatorio. La scoperta è stata possibile grazie a un approccio multidisciplinare che ha coinvolto chirurghi, ingegneri, biofisici ed immunologi.
I dati emersi nello studio aggiungono un elemento inedito – quello della geometria microscopica – alla comprensione dei meccanismi infiammatori legati alle protesi: fino a oggi l’ipotesi degli scienziati era che l’infiammazione dipendesse dai materiali utilizzati, dalla presenza di infezioni batteriche o dalla frizione meccanica tra il corpo estraneo e i tessuti circostanti. Lo studio si è concentrato sulle protesi per il seno ma le sue conclusioni sono rilevanti per tutti i dispositivi medici sottopelle.
A condurre la ricerca sono stati il Dott. Valeriano Vinci, ricercatore di Humanitas University e chirurgo presso l’Unità Operativa di Chirurgia Plastica dell’IRCCS Istituto Clinico Humanitas diretta dal Prof. Marco Klinger, il Prof. Gerardus Johannes Janszen, docente del Politecnico di Milano, la Dott.ssa Cristina Belgiovine dell’Università di Pavia e il Prof. Roberto Rusconi, professore associato di fisica applicata presso Humanitas University e responsabile del laboratorio di biofisica e microfluidica di Humanitas.
Lo studio è stato pubblicato su Life Science Alliance – la rivista Open Access nata da tre realtà di eccellenza: EMBO, Rockefeller University e Cold Spring Harbor Laboratory – ed è stata possibile grazie al sostegno di un finanziamento PRIN del Ministero della Ricerca.
Le protesi mediche sono strumenti di cura fondamentali: ci tengono in vita, come nel caso dei peacemaker, ci permettono di ricominciare a camminare e muoverci dopo traumi o malattie articolari, e ci aiutano a riappropriarci della nostra identità, come spesso accade nel caso delle protesi estetiche e ricostruttive del seno, cui molte donne fanno ricorso dopo la chirurgia oncologica.
Ma le protesi sono anche corpi estranei che devono essere accolti all’interno di un organismo abituato a rispondere alle possibili minacce che provengono dall’esterno. Ecco perché possono generare localmente una risposta infiammatoria. Quando questa risposta è eccessiva, può aumentare il rischio di sviluppare malattie infiammatorie, autoimmuni, o anche tumori, soprattutto quelli associati a condizioni di infiammazione cronica. È il caso, ad esempio, del Linfoma anaplastico a grandi cellule (noto come ALCL), un linfoma molto raro e con buoni tassi di guarigione – purché identificato per tempo – la cui incidenza è però lievemente più alta nelle pazienti con protesi al seno macro-testurizzate, una tipologia di protesi caratterizzata da una superficie più ruvida, che è stata poi tolta dal commercio proprio per questa correlazione.
Spiega il dott. Valeriano Vinci: «L’obiettivo della nostra ricerca non è tanto capire il meccanismo alla base del maggior rischio presentato dalla protesi macro-testurizzate, ormai non più in commercio, ma soprattutto mettere a punto un sistema per testare la sicurezza delle altre protesi al seno in uso, come quelle lisce e soprattutto le micro-testurizzate, e potenzialmente di altre tipologie di protesi o dispositivi medici, anche molto diversi da una protesi al seno. Indipendentemente da forma e funzione infatti, tutti i dispositivi medici hanno una superficie esterna a contatto con i tessuti dell’organismo e, come la nostra ricerca dimostra, il modo in cui è fatta questa superficie ha un ruolo importante».
Lo studio ha coinvolto 43 pazienti che avevano necessità di sostituire la propria protesi al seno, una procedura comune a distanza di tanti anni dal primo inserimento e nel caso di protesi temporanee, a espansione, il cui ruolo è proprio quello di preparare il tessuto a ospitare la protesi permanente. Oltre il 60% delle donne aveva una storia di tumore al seno e a seguito dei trattamenti aveva fatto ricorso alla chirurgia ricostruttiva.
I ricercatori hanno raccolto il liquido peri-protesico delle pazienti e l’hanno analizzato con tecniche di analisi genomica e cellulare avanzate. L’obiettivo era duplice: identificare la presenza di infezioni batteriche e analizzare il profilo di attivazione immunitaria, ovvero quali cellule del sistema immunitario e quali citochine infiammatorie erano presenti.
«Abbiamo scoperto che l’elemento chiave nel determinare la risposta infiammatoria, sia cellulare che molecolare, non era la presenza o meno di infezioni batteriche, quanto piuttosto la struttura geometrica superficiale delle diverse protesi – afferma il prof. Roberto Rusconi –. Nel caso delle protesi macro-testurizzate, che presentano cioè superfici con avvallamenti particolarmente pronunciati e spigolosi, come dei veri e propri pozzetti micrometrici, l’infiammazione è maggiore. Mentre le protesi lisce e quelle micro-testurizzate, ovvero solo lievemente “ruvide” – una proprietà importante per mantenerle stabili e ridurre il rischio di altre complicanze – hanno tassi bassi di infiammazione e si confermano sicure».
Per comprendere meglio il motivo di questa reazione infiammatoria, i ricercatori hanno riprodotto fedelmente la superficie delle protesi in laboratorio e hanno studiato come le cellule immunitarie reagiscono in un contesto controllato. L’esperimento è stato possibile grazie alla collaborazione con il gruppo del prof. Gerardus Janszen e del prof. Luca di Landro del Politecnico di Milano, che hanno utilizzato un microscopio elettronico in grado di fotografare la superficie delle protesi a livello nanometrico, per poi riprodurle fedelmente utilizzando un materiale polimerico, il PDMS, simile a quello impiegato per le protesi al seno.
«Gli studi condotti in laboratorio hanno confermato quanto osservato nei campioni clinici. Non solo, ma ci hanno permesso di vedere cosa stava realmente accadendo: le cellule immunitarie, ed in particolare i linfociti T, vengono intrappolate all’interno dei pozzetti presenti sulla superficie delle protesi macro-testurizzate. In questa condizione di confinamento, rilasciano segnali di comunicazione fra le cellule del sistema immunitario, le citochine appunto, caratteristici di uno stato di infiammazione cronica», spiegano Roberto Rusconi e Valeriano Vinci, che concludono: «Lo studio dà un messaggio positivo sulla sicurezza delle protesi micro-testurizzate e ha un alto valore traslazionale: grazie a questo lavoro abbiamo messo a punto una vera e propria piattaforma tecnologica per testare le superfici di altre tipologie di protesi e dispositivi medici».
«È molto importante che, come accade in Humanitas, un ospedale collegato a un centro di Ricerca faccia anche questi studi, fondamentali per dare risposte concrete alle richieste di qualità e sicurezza delle pazienti. Ricerca e pratica clinica in rapporto stretto, per il continuo miglioramento della cura», conclude il prof. Marco Klinger.
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Pectus excavatum, o petto escavato, e pectus carinatum, petto carenato, sono delle condizioni che comportano una deformazione congenita a carico della parete toracica anteriore. Queste anomalie, che possono comportare la deformazione dello sterno verso l’interno (pectus excavatum) o verso l’esterno (pectus carinatum) sono visibili già durante le fasi dello sviluppo del bambino per manifestarsi in maniera conclamata nella fase adolescenziale. Una volta terminato il processo di crescita, la deformazione si stabilizza. Queste deformazioni possono provocare l’insorgenza di vari disturbi, da quelli posturali, a quelli a carico dell’apparato respiratorio e di quello cardiovascolare.
Ne parliamo con il dottor Emanuele Voulaz, chirurgo toracico presso l’IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Rozzano.
Il pectus excavatum e il pectus carinatum sono determinati da una crescita abnorme delle cartilagini costali, che sospinge lo sterno verso l’interno o verso l’esterno provocando una deformazione di tutta la parete toracica.
Le cause di queste anomalie sono ancora oggetto di studio, ma gioca molto probabilmente il fattore genetico. Entrambe le patologie sono congenite e interessano maggiormente i maschi rispetto alle femmine. Il pectus excavatum interessa lo 0,1-0,5% dei nati e di questi circa 3-4 ogni 10 proviene da famiglie in cui il disturbo è già presente, mentre il pectus carinatum interessa circa 1 persona ogni 1000 (anche se alcuni studi stimano che sia 1 persona su 300 a esserne interessata).
Altre condizioni associate frequentemente al pectus excavatum sono:
Il pectus carinatum si associa a:
Il pectus excavatum è correlato all’insorgenza una serie di disturbi:
In particolare, il pectus excavatum può comportare una diminuzione dello spazio a disposizione dell’espansione polmonare e, allo stesso tempo, una compressione del cuore, che viene sospinto verso il lato sinistro del petto.
Il pectus carinatum, invece, non provoca una sintomatologia evidente: il paziente può essere interessato da problemi posturali e indolenzimento alla schiena, nonché sperimentare respiro corto e dolore al petto quando assume determinate posizioni o effettua determinati esercizi, ma non si tratta di una condizione pericolosa.
Da tenere in considerazione però che entrambi i disturbi possono comportare una preoccupazione circa il proprio aspetto fisico, una carenza di autostima, il tentativo di camuffare con i vestiti l’anomalia e l’evitamento di situazioni che comportano l’esposizione del torso (come andare in piscina o in spiaggia). La fatica emotiva che deriva da queste condizioni, quindi, può avere delle conseguenze sul tono dell’umore e necessitare un opportuno supporto psicologico.
La diagnosi per entrambe le condizioni avviene clinicamente: è infatti sufficiente l’osservazione del torace del paziente per riscontrare la deformazione.
Tuttavia, può essere poi utile, per valutare caratteristiche e severità del disturbo, effettuare esami tra cui:
In caso di indicazione al trattamento chirurgico, che viene sempre definita a seguito di valutazione specialistica e in accordo con genitori del paziente, è consigliato intervenire intorno ai 12-15 anni, sia per la buona riuscita dell’intervento, sia per evitare l’insorgenza di problematiche fisiche e psicologiche future.
Oggi, tuttavia, risulta possibile correggere il problema anche successivamente e vengono fatti interventi su pazienti fino a 40 anni e versano in condizioni particolarmente severe.
L’intervento chirurgico per la correzione del pectus excavatum può avvenire in modalità mininvasiva o tradizionale, a seconda della severità del disturbo e delle condizioni cliniche del paziente. In ogni caso, la chirurgia è finalizzata a riposizionare lo sterno per diminuire la pressione su cuore e polmoni, in modo da garantirne una migliore funzionalità respiratoria e cardiaca. Chiaramente, anche l’aspetto del torace al termine della procedura risulterà maggiormente nella norma.
Il pectus carinatum, invece, si può trattare sia in maniera conservativa, con l’utilizzo di un corsetto, sia chirurgicamente. Il corsetto è consigliato in fase di crescita, in modo da sfruttare la fisiologica elasticità delle ossa. Può essere inserito sopra o sotto i vestiti a seconda delle necessità ed esercita sul torso una pressione finalizzata a sospingere con il tempo lo sterno verso la sua posizione fisiologica. Abitualmente, l’utilizzo del corsetto viene prescritto per 24 ore al giorno in cicli di circa 6 mesi all’anno e può essere rimosso per fare la doccia o effettuare attività sportiva.
In caso di una deformazione particolarmente severa o se la struttura ossea non è più modellabile da un corsetto, si potrebbe invece dover ricorrere alla chirurgia.
The post Torace: cause e sintomi di pectus excavatum e pectus carinatum appeared first on Humanitas.
La cervicite è l’infiammazione della cervice uterina (o collo dell’utero) che costituisce la parte inferiore dell’utero e ha una forma simile a quella di un cono. La cervice uterina è percorsa da un canale, il canale cervicale, che mette in comunicazione questa cavità con la vagina.
Le cause della cervicite sono spesso di natura infettiva e i sintomi non sono specifici.
Vediamo da cosa è causata, quali sono i sintomi, come si cura e come prevenirla con la dottoressa Annamaria Baggiani, Responsabile del Servizio di Infertilità Femminile e Procreazione Medicalmente Assistita del Fertility Center dell’IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Rozzano.
La cervicite è spesso provocata da agenti patogeni associati alle malattie sessualmente trasmissibili, come clamidia, tricomoniasi, gonorrea, herpes genitale, infezione da Papilloma virus e micoplasma genitale.
Tra le altre cause della cervicite, troviamo la vaginosi batterica, derivante dall’alterazione dell’equilibrio della flora batterica locale e dalla proliferazione di batteri come lo Streptococcus e lo Stafilococco.
La cervicite può manifestarsi con sintomi quali:
A seconda dell’agente patogeno coinvolto, possono verificarsi prurito intenso e, in caso di donne in post-menopausa, sanguinamento, che potrebbe risultare un segnale di allarme. È però possibile che la cervicite si manifesti anche senza sintomi evidenti.
In presenza di questi sintomi occorre rivolgersi al ginecologo. Nel caso in cui la condizione sia asintomatica, l’infiammazione cervicale può essere identificata solo attraverso tamponi cervicovaginali. Il medico potrebbe inoltre richiedere analisi delle secrezioni vaginali per individuare la presenza di gonorrea, clamidia, tricomoniasi e vaginosi batterica.
Se la causa dell’infiammazione è identificata, il trattamento mirato può favorire la risoluzione dell’infiammazione della cervice uterina. La terapia antibiotica si utilizza in caso di clamidia, gonorrea e infezioni da micoplasma, la tricomoniasi risponde al metronidazolo e le infezioni da herpes virus richiedono l’uso di antivirali.
Una cervicite non curata può portare all’endometrite, un’infiammazione del tessuto che riveste la cavità uterina, e a malattia infiammatoria pelvica, che può determinare infertilità.
Per quanto riguarda la prevenzione della cervicite, è necessario avere rapporti sessuali protetti dall’uso del preservativo ed evitare il contatto con sostanze irritanti che potrebbero alterare l’equilibrio della flora batterica vaginale, favorendo le infezioni.
Anche l’uso del diaframma o di altri metodi contraccettivi può essere associato all’insorgenza dell’infiammazione cervicale. Le reazioni allergiche ai spermicidi o al lattice dei preservativi possono sicuramente provocare situazioni di cervicovaginite.
Inoltre, l’impiego del diaframma, del pessario e l’eccessivo utilizzo di lavande vaginali, detergenti intimi o terapie locali prolungate possono altrettanto contribuire all’insorgenza dell’infiammazione. Quando si avvia un trattamento farmacologico tempestivo, solitamente si osserva un recupero rapido.
È importante coinvolgere anche il partner nel trattamento. Infine, gli esiti aderenziali di infezioni più severe (per esempio da Chlamydia Tracomatis) risalite a livello pelvico non sono trattabili con il trattamento medico.
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I noduli alla tiroide sono piccole formazioni benigne che si sviluppano all’interno della tiroide, una ghiandola endocrina situata nella parte anteriore del collo, deputata alla produzione di ormoni essenziali per il metabolismo.
I noduli tiroidei sono più comuni nella popolazione femminile e in genere la loro scoperta avviene per caso. Possono essere di natura liquida, solida o mista.
I noduli alla tiroide presentano sintomi caratteristici? Quando preoccuparsi della loro presenza? Ne parliamo con il professor Andrea Lania, Responsabile dell’Unità Operativa di Endocrinologia e Diabetologia dell’IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Rozzano e docente di Humanitas University.
In genere i noduli alla tiroide sono asintomatici e il loro riscontro è casuale, magari durante l’esecuzione di esami quali un ecocolordoppler dei vasi sovraortici o una risonanza magnetica della colonna vertebrale a livello cervicale. Tuttavia alcuni segnali possono far sospettare la presenza di un nodulo, come per esempio:
Più raramente, i noduli possono associarsi a sintomi di ipertiroidismo come:
Fortunatamente, solo una piccola percentuale dei noduli alla tiroide è di origine tumorale. Il sospetto di malignità di un nodulo può sorgere a causa di particolari condizioni, come una storia familiare di malattie tiroidee o la presenza di linfonodi ingranditi. Tuttavia, più frequentemente, il sospetto deriva dalle caratteristiche del nodulo stesso, che possono essere valutate tramite esami specifici.
Per confermare la diagnosi di nodulo tiroideo, si utilizza un’ecografia tiroidea con color doppler. Questo esame consente di determinare con precisione la presenza, le dimensioni, il grado di vascolarizzazione e la struttura dei noduli (sia solidi, liquidi che misti).
Gli approfondimenti diagnostici che possono essere consigliati includono:
Se i noduli tiroidei sono benigni, asintomatici, di piccola dimensione e non influenzano negativamente la funzionalità della tiroide, è in genere sufficiente un monitoraggio periodico. È importante effettuare controlli regolari, come analisi del sangue (TSH, FT3 e FT4) e un’ecografia annuale.
Nel caso di noduli iperfunzionanti, che producono un eccesso di ormoni tiroidei, lo specialista può prescrivere una terapia farmacologica per ridurre la produzione di ormoni tiroidei. In alcuni casi, può essere indicata una terapia radiometabolica medico-nucleare (trattamento con radioiodio) per ridurre la funzionalità dei noduli, oppure un intervento chirurgico.
L’intervento chirurgico è consigliato anche per noduli benigni di grandi dimensioni che causano disturbi compressivi, come difficoltà nella respirazione o nella deglutizione, o per noduli che risultano maligni all’esame citologico con agoaspirato.
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L’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2021 ha aggiornato le linee guida relative alla qualità dell’aria, abbassando i limiti. Un’azione sostenuta da numerosi studi che hanno documentato i danni dell’inquinamento atmosferico sulla salute.
A risentirne in particolare sono i polmoni, con il rischio che insorgano – o peggiorino – malattie respiratorie o tumori.
Quali sono i danni dell’inquinamento e quali sintomi non sottovalutare? Ne parliamo con la dottoressa Paola Scarano, pneumologa presso l’IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Rozzano.
Sono sempre più numerosi gli studi scientifici che evidenziano la correlazione tra inquinamento atmosferico, condizioni climatiche e malattie respiratorie.
I gas di scarico, i fumi degli impianti industriali, le condizioni climatiche sfavorevoli, determinano un grave pericolo per l’apparato respiratorio e lo sviluppo, o il peggioramento, di patologie quali:
Vi è anche un incrementato rischio di peggiorare manifestazioni respiratorie di tipo allergico.
A oggi inoltre, la maggior parte degli epidemiologi ritiene che le cosiddette polveri sottili siano tra i principali responsabili del legame tra inquinamento atmosferico e aumentato rischio di neoplasie, tra cui quelle polmonari, seppur il primo fattore di rischio per tumore al polmone è rappresentato sempre dal fumo di sigaretta.
In presenza di alcuni sintomi, soprattutto se ricorrenti o se non correlati ad altro di noto, è bene consultare lo specialista pneumologo.
In particolare in presenza di:
Gli effetti dell’inquinamento atmosferico e dei cambiamenti climatici sulle malattie respiratorie e allergiche sono noti, come la correlazione tra inquinamento atmosferico e asma.
Grazie alle numerose applicazioni presenti sugli smartphone è possibile essere sempre aggiornati sulla qualità dell’aria della zona in cui si abita, cercando quindi di limitare le attività all’aria aperta nei giorni in cui la qualità dell’aria è peggiore.
In questi giorni inoltre, per evitare l’esposizione diretta a particelle inquinanti, può essere utile proteggere sempre naso e bocca (con una mascherina o una sciarpa) in modo da filtrare l’aria che si respira.
Chi soffre di asma inoltre, dovrebbe sfruttare le occasioni di tempo libero per allontanarsi dalle aree urbane particolarmente inquinate, prediligendo le attività in montagna o il mare, dove la presenza di inquinamento e allergeni è minore.
In caso di attività fisica all’aperto in città, è consigliabile praticarla durante le prime ore del mattino in cui le concentrazioni di polveri sottili sono più basse e scegliere – sempre se possibile – parchi, strade secondarie, aree meno trafficate; è sempre utile in questi casi avere con sé un farmaco broncodilatatore di emergenza per il rischio di una comparsa improvvisa di crisi asmatica.
Legambiente nel suo report “Mal’Aria di città 2024” ha analizzato i dati dei livelli delle polveri sottili (PM10, PM2,5) e del biossido di azoto (NO2) nei capoluoghi di provincia italiani.
Ne è emerso che nel 2023 18 città su 98 osservate, hanno superato gli attuali limiti normativi per gli sforamenti di PM10 (35 giorni all’anno con una media giornaliera superiore ai 50 microgrammi/metro cubo).
Da ciò che emerge dal report di Legambiente, purtroppo le città italiane presentano ancora considerevoli ritardi rispetto ai valori più stringenti proposti dalla revisione della Direttiva europea sulla qualità dell’aria che entrerà in vigore dal 2030 (20 µg/mc per il PM10, 10 µg/mc per il PM2.5 e 20 µg/mc per l’NO2).
Pertanto è in atto una campagna di lotta all’inquinamento atmosferico, con gli obiettivi di promuovere una mobilità sostenibile e a zero emissioni chiedendo città più vivibili e sicure per la salute.
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In moto, le mani costituiscono la parte più esposta all’aria e particolarmente sensibile a infortuni e infiammazioni. Svolgono un ruolo cruciale nel mantenere saldo il manubrio, rispondere ai comandi di freno, frizione e cambio, e assicurare una guida sicura. Garantire la protezione delle mani e preservarne la salute e la funzionalità sono aspetti fondamentali per la sicurezza di ogni motociclista.
Approfondiamo l’argomento con il dottor Giorgio Pivato, Responsabile dell’Unità Operativa di Chirurgia della Mano e Microchirurgia Ricostruttiva presso l’IRCCS Istituto Clinico Humanitas.
Ogni motociclista consapevole sa che è essenziale proteggere sempre le mani con guanti appropriati, indipendentemente dalla stagione in cui si guida la moto. In particolare, le mani possono perdere sensibilità con il freddo che aumenta con la velocità di viaggio, riducendo così la prontezza di risposta ai comandi. La perdita di sensibilità, il dolore e il formicolio dovuti al raffreddamento eccessivo delle mani possono avere gravi conseguenze sulla sicurezza durante la guida della moto.
Per prevenire tali situazioni, oggi sono disponibili diversi dispositivi per i motociclisti, tra cui guanti riscaldati, sottoguanti riscaldati e, per chi acquista una moto nuova, le manopole riscaldate sono un optional importante per mantenere le mani sempre alla giusta temperatura.
Tuttavia, è importante notare che il formicolio alla mano può anche derivare da gesti ripetitivi e tensioni sulle strutture delle dita e della mano. Per mantenere le mani in ottime condizioni, i motociclisti esperti spesso utilizzano solo due dita per premere la frizione, riducendo la tensione sulla mano e garantendo un maggiore controllo sul manubrio, contribuendo così alla sicurezza stradale.
Durante la guida in moto, è essenziale mantenere una postura corretta delle braccia e delle mani sul manubrio al fine di evitare sovraccarichi sulle articolazioni e prevenire sindromi da overuse. La postura adeguata si raggiunge immaginando che gomito, polso e dita formino una sorta di linea continua con il manubrio e il freno da un lato, e con il manubrio e la frizione dall’altro. Questo aiuta a evitare flessioni innaturali del polso, delle dita o del gomito.
Mantenere la postura corretta non solo previene sforzi eccessivi sulle articolazioni, ma contribuisce anche a un migliore controllo della frizione, del freno e dell’acceleratore.
Questo aiuta a prevenire gli effetti della pressione continua sul nervo mediano, riducendo il rischio di sindrome del tunnel carpale, che può manifestarsi con formicolio, riduzione della forza della mano e dolore al polso.
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La fotofobia è un disturbo che comporta un’eccessiva sensibilità degli occhi alla luce. La fotofobia non è considerata una patologia ma un sintomo correlato a patologie degli occhi o neurologiche. Non bisogna dunque preoccuparsi quando si prova del fastidio a causa di condizioni esterne, come una giornata di sole particolarmente luminoso, magari in cui i raggi sono riflessi da superfici come l’acqua o la neve, o se si fissa una sorgente di luce, ma se il problema persiste o aumenta nel tempo è opportuno consultare uno specialista oculista, in modo da individuare la causa sottostante e valutare l’entità del disturbo.
Ne parliamo con il professor Paolo Vinciguerra, Direttore del Centro Oculistico dell’IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Rozzano.
Le persone con fototipo basso, quindi con occhi e pelle chiari, sono spesso fotofobiche. Si tratta di un difetto di pigmentazione dell’area dell’occhio posta tra retina e coroide e deputata all’assorbimento della luce: una pigmentazione inferiore comporta una maggiore sensibilità alla luce. In alcuni casi si parla di albinismo oculare, in cui il paziente ha una mancanza totale, o estremamente importante, di melanina.
Anche chi non appartiene a un fototipo chiaro, può incorrere in episodi sporadici di fotofobia: per esempio passando un tempo prolungato davanti a una forte luce solare o fare utilizzo di lampade e lettini abbronzanti (quindi a raggi UV) senza un’adeguata protezione per gli occhi. Il fastidio provocato dalla luce eccessiva e il conseguente istinto a chiudere gli occhi è dovuto all’effetto che i raggi UV hanno sull’epitelio corneale, il tessuto che riveste i nostri occhi, che risulta danneggiato dall’esposizione eccessiva ai raggi UV. Inoltre, anche alcuni farmaci possono avere un effetto fotosensibilizzante.
Anche i difetti di rifrazione, come l’ipermetropia e l’astigmatismo, possono comportare l’insorgenza di fotofobia. Nel caso dell’ipermetropia, utilizzare lenti con difetti di correzione può associarsi allo sviluppo di questo disturbo. Il cristallino, per garantire una messa a fuoco adeguata, modifica la sua forma (accomodazione) per mettere a fuoco oggetti troppo lontani o troppo vicini e, di conseguenza, si sforza il muscolo ciliare e insorge la fotofobia. La pupilla, infatti, si restringe o si allarga in base alla messa a fuoco e alla quantità di luce che deve filtrare e, quando si restringe, l’iride aderisce alla radice del muscolo ciliare, deputato alla regolazione della messa a fuoco. Lo sforzo del muscolo ciliare, quindi, in presenza di lenti inadatte diventa costante e la necessità di restringere la pupilla provocata da una luce intensa provoca uno stiramento del muscolo ciliare già in estrema contrazione e ciò determina ulteriore stimolo infiammatorio causa di fotofobia. Grazie alle luci più attenuate, invece, la pupilla avrà modo di allargarsi e di diminuire così lo sforzo di cristallino e muscolo ciliare.
Chi soffre di astigmatismo può ugualmente sviluppare la fotofobia in correlazione a un difetto nella correzione delle lenti. Gli astigmatici, infatti, hanno una messa a fuoco delle parti che compongono un determinato oggetto che si svolge in tempi differenti. L’esempio tipico è quello della croce: un paziente con astigmatismo vedrà prima soltanto la linea orizzontale oppure quella verticale e, solo in un secondo momento, l’altra linea. Grazie all’elaborazione del cervello, però, avrà l’immagine complessiva della croce. Il cristallino e il muscolo ciliare, in caso di astigmatismo, sono dunque costantemente posti sotto sforzo, con il possibile sviluppo di fotofobia.
In presenza di congiuntivite, quindi di un’infiammazione dell’occhio di origine infettiva o allergica, le palpebre tendono a chiudersi per facilitare il processo di rigenerazione. Anche la fotofobia fa parte dei processi protettivi dell’occhio, poiché porta a restringere la pupilla e, eventualmente, a chiudere gli occhi.
L’uveite, invece, è un’infiammazione a carico dell’uvea (coroide), la tonaca vascolare dell’occhio posta tra la sclera, la parte bianca dell’occhio, e la retina, che è la parete più interna. L’infiammazione dell’uvea comporta un restringimento importante della pupilla, a causa del quale l’occhio, per diminuire il fastidio, sviluppa un riflesso meccanico di protezione dalla luce.
Anche la cheratite, ossia l’infiammazione a carico della cornea, la “lente” che filtra la luce che colpisce l’occhio, provoca di riflesso un fastidio marcato alla luce intensa. Ma la fotofobia è anche sintomo anche delle distrofie retiniche, patologie di origine ereditaria che si associano a danni visivi severi caratterizzati dalla presenza di chiazze scure nel campo visivo.
Abbiamo detto che le lenti sbagliate possono provocare fotofobia: per quanto riguarda le lenti a contatto anche una misura errata per le dimensioni del proprio occhio o una manutenzione superficiale, in cui si presta poca attenzione alle norme igieniche, possono comportare l’insorgenza di una fotofobia. Una scarsa attenzione alla gestione delle lenti a contatto, inoltre, può provocare abrasioni.
Le lesioni, che siano abrasioni da lenti a contatto, o causate da oggetti esterni o dita inserite malamente nell’occhio, soprattutto quando sono a carico della cornea possono provocare fotofobia. La cornea, infatti, è la parte dell’occhio a contatto con l’esterno e attraverso la quale entra la luce, che, in caso di lesione risulterà inevitabilmente più aggressiva per l’occhio.
Non solo patologie degli occhi: anche cefalea e stress si associano alla fotofobia. Il mal di testa ha spesso ripercussioni sulla salute degli occhi, dall’aumento della sensibilità alla luce, appunto, al calo della vista e alla sensazione di “lampi” nella visione. Chi soffre di fotofobia associata alla cefalea può trovare conforto dalle luci abbassate e il disturbo si risolverà con il risolversi del mal di testa.
Tra le cause della fotofobia si annovera infine anche lo stress. Si tratta di una causa che possiamo definire “indiretta”, perché in questo caso la fotofobia è provocata dalla riduzione dell’ammiccamento associata allo stress. Quando si è in condizioni di ansia, infatti, l’occhio effettua un minor numero di chiusure spontanee, con un aumento della secchezza dell’occhio e, quindi, della sua sensibilità.
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L’ipertensione arteriosa è una patologia caratterizzata da un aumento della pressione del sangue nelle arterie. È cruciale identificarla tempestivamente poiché, se trascurata e non curata, può causare infarto del miocardio, ictus cerebrale, insufficienza cardiaca, deterioramento della funzionalità renale e patologie delle arterie periferiche.
In realtà, l’ipertensione arteriosa non è di per sé una malattia, ma rappresenta un elemento di pericolo che incrementa il rischio di sviluppare altre patologie cardiovascolari. Pertanto, le linee guida internazionali consigliano di valutare il rischio cardiovascolare globale di ogni persona, allo scopo di stabilire la terapia più adeguata per ciascun paziente.
Quali sono i sintomi della pressione alta e quali le cause? Ne parliamo con il dottor Beniamino Rosario Pagliaro, cardiologo presso l’IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Rozzano e i centri medici Humanitas Medical Care.
L’ipertensione arteriosa non si manifesta sempre con sintomi specifici ed evidenti e, in alcuni casi, i segnali possono essere minimizzati dal paziente attribuendoli ad altre cause.
I sintomi più frequenti possono includere:
Dato che l’ipertensione arteriosa non si accompagna sempre a sintomi distintivi, è essenziale, per diagnosticarla in anticipo, sottoporsi regolarmente a controlli della pressione arteriosa.
L’ipertensione arteriosa essenziale, che non è legata a cause secondarie e si riscontra più frequentemente in età avanzata, colpisce in particolare le persone oltre i 60 anni e le donne in età post-menopausale. Tuttavia, è raccomandato monitorare i valori di pressione arteriosa anche prima, dato che non è raro un’insorgenza precoce di ipertensione.
Generalmente, la pressione è considerata nei limiti della normalità quando si attesta al di sotto dei 140/90 mmHg. La pressione massima (sistolica) è generata dalle contrazioni cardiache che spingono il sangue attraverso le arterie (normalmente non supera i 140 mmHg); invece, la pressione minima (diastolica), si registra nel momento che intercorre tra le contrazioni, quando il cuore si riempie di sangue da pompare (i valori ritenuti normali sono uguali o minori di 90 mmHg).
Quando uno o entrambi questi valori superano costantemente i livelli considerati normali, si definisce ipertensione arteriosa.
In presenza di valori di pressione arteriosa al limite (pressione sistolica 130-139 mmHg e/o pressione diastolica 85-89 mmHg), si consiglia di tenere un diario pressorio con misurazioni a casa, eseguite in orari differenti del giorno, per un periodo di 15-30 giorni, e consultare il proprio medico di medicina generale.
Anche un monitoraggio ambulatoriale continuo di 24 ore, che fornisce una media dei valori di pressione giornalieri, includendo anche la pressione notturna, individuando quei pazienti che non presentano il normale calo notturno della pressione, elemento fondamentale per la salute del sistema cardiovascolare.
L’analisi di questi dati assiste il medico nella formulazione di una diagnosi accurata di ipertensione arteriosa e nella scelta dei trattamenti più adatti.
Una volta confermata la diagnosi di ipertensione arteriosa, il trattamento varia in base al rischio cardiovascolare globale del singolo paziente e al grado di ipertensione.
Nei pazienti a basso rischio cardiovascolare e con ipertensione arteriosa di grado 1 (pressione arteriosa sistolica tra 140 e 159 mmHg e/o pressione arteriosa diastolica tra 90 e 99 mmHg), il primo passo è generalmente quello di apportare modifiche allo stile di vita. Queste includono una dieta a basso contenuto di sale, esercizio fisico aerobico regolare, astensione dal fumo, perdita di peso, che possono aiutare a ridurre i valori di pressione arteriosa. Se, nonostante queste modifiche per un periodo di tempo adeguato, i valori di pressione arteriosa rimangono elevati (>140/90 mmHg), si rende necessario l’avvio di un trattamento farmacologico.
Nelle persone con un rischio cardiovascolare più elevato, in pazienti con valori più alti di ipertensione arteriosa al momento della diagnosi (grado 2: pressione arteriosa sistolica tra 160 e 179 mmHg e/o pressione arteriosa diastolica tra 100 e 109 mmHg; grado 3: pressione arteriosa sistolica = 180 mmHg e/o pressione arteriosa diastolica = 110 mmHg), o in quelli con danni d’organo causato dell’ipertensione già presente, le linee guida attuali raccomandano di iniziare immediatamente una terapia farmacologica, in combinazione con le modifiche dello stile di vita.
Esiste un’ampia varietà di farmaci antipertensivi, appartenenti a diverse classi farmacologiche, ciascuno con diversi livelli di efficacia. I farmaci di prima linea includono gli inibitori dell’enzima di conversione dell’angiotensina (ACE-inibitori) e i sartani, che possono essere combinati con farmaci calcio-antagonisti e/o diuretici. I betabloccanti sono frequentemente impiegati nel trattamento dell’ipertensione arteriosa, specialmente in situazioni in cui sono indicati per altri motivi clinici, come nei pazienti con cardiopatia ischemica o scompenso cardiaco.
In casi di ipertensione arteriosa resistente, possono essere utilizzate classi di farmaci considerati di seconda linea, come gli antagonisti dei recettori mineralcorticoidi o gli alfa-litici. Considerata la vasta gamma di farmaci disponibili, è fondamentale consultare uno specialista cardiologo per ricevere un trattamento personalizzato, basato sulle specifiche necessità del singolo paziente.
Un caso particolare è rappresentato dall’ipertensione arteriosa in gravidanza, che richiede un approccio specifico. Questa condizione deve essere trattata con particolare attenzione, utilizzando farmaci che non siano dannosi per il feto.
Effettuare controlli periodici della pressione arteriosa attraverso la misurazione domiciliare e/o il monitoraggio ambulatoriale di 24 ore è fondamentale per determinare se le modifiche allo stile di vita e/o la terapia farmacologica impostata stiano effettivamente abbassando i valori di pressione arteriosa ai livelli desiderati. Nei casi in cui l’ipertensione è stata diagnosticata e trattata precocemente, in particolare in pazienti a rischio intermedio e basso che hanno apportato cambiamenti significativi nello stile di vita e raggiunto i valori target di pressione arteriosa, gestendo in modo ottimale anche gli altri fattori di rischio cardiovascolare, può essere possibile sospendere la terapia farmacologica, se iniziata, evitando così un trattamento a vita.
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La dengue è una malattia virale prevalentemente diffusa nelle regioni tropicali e subtropicali del mondo. Si stima che circa la metà della popolazione mondiale viva in aree a rischio di contrarre l’infezione. Questa malattia è conosciuta da oltre due secoli, ma negli ultimi decenni si è assistito a un aumento della sua diffusione. Allo stato attuale si stanno registrando numerosi focolai epidemici in diverse parti del mondo in particolare in Centro e Sud America, in alcune regioni dell’Africa e nel Sud Est Asiatico anche se alcuni focolai più limitati sono stati registrati recentemente anche in Europa e Stati Uniti.
Quali sono i sintomi della dengue? Ne parliamo con il professor Michele Bartoletti, responsabile dell’Unità Operativa di Malattie infettive presso l’IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Rozzano.
La dengue è causata da una famiglia di quattro virus simili tra loro: Den-1, Den-2, Den-3 e Den-4. La trasmissione avviene principalmente attraverso la puntura di una zanzara infetta, in particolare della specie Aedes aegypti, ma anche da Aedes albopictus.
Quando una persona viene punta da una zanzara infetta, il virus della dengue invade il torrente circolatorio dove il virus può essere riscontrato mediamente per 2-7 giorni. Se una persona infetta viene punta da un’altra zanzara questa può trasmettere il virus ad altre persone che si ammalano pur non essendo mai state in aree endemiche per infezione da Dengue.
Dopo essere stati punti da una zanzara infetta, i sintomi della dengue possono manifestarsi entro 5-6 giorni. Il sintomo principale è rappresentato dalla febbre che spesso si presenta in associazione ad altri sintomi come:
Nei bambini, molti di questi sintomi potrebbero non manifestarsi.
Sebbene la diagnosi di dengue sia frequentemente formulata in base ai sintomi osservati, per una conferma definitiva si può ricorrere a test di laboratorio. Questi test possono rilevare la presenza del virus o degli anticorpi specifici nel sangue del paziente.
Non esiste un trattamento antivirale specifico per la dengue e la gestione del paziente consiste principalmente nell’alleviare i sintomi. È consigliato assicurare un adeguato riposo, somministrare farmaci per abbassare la febbre e garantire buoni livelli di idratazione. In alcuni casi la malattia può evolvere verso una forma severa in cui si manifestano sintomi emorragici. In rari casi la malattia può essere fatale. La dengue severa rappresenta pertanto una emergenza medica.
La prevenzione si basa fondamentalmente sull’evitare le punture di zanzara. L’uso di repellenti cutanei, così come indossare indumenti impregnati di repellenti, utilizzare magliette a maniche lunghe e pantaloni lunghi e l’utilizzo di zanzariere rappresentano misure fondamentali. A livello comunitario, è essenziale intraprendere azioni per contrastare le zanzare vettori, come l’eliminazione dei ristagni d’acqua che rappresentano un habitat ottimale per la deposizione delle uova delle zanzare e le campagne di disinfestazione, per ridurre la popolazione di zanzare e, di conseguenza, il rischio di trasmissione. Da poco è anche disponibile un vaccino indicato per i viaggiatori verso zone endemiche per la dengue. Si tratta di un vaccino tetravalente vivo attenuato in grado di prevenire infezioni causate da uno qualsiasi dei quattro sierotipi del virus: è possibile somministrarlo in persone a partire dai 4 anni di età.
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Lo scorso 15 febbraio è stato rilasciato un importante aggiornamento dell’area Referti del portale Humanitas con te.
Con il nuovo aggiornamento, il design e l’interfaccia di questa sezione si uniformano con il resto del portale, garantendo facilità d’uso ed un look and feel simile a quello dell’app Humanitas con te.
Colori, font, iconografia e layout rendono l’interazione con il portale ancora più piacevole e intuitiva.
Nell’Area Referti Humanitas con te sono stati semplificati i percorsi di navigazione e la disposizione dei contenuti con l’obiettivo di rendere più accessibili le attività di primo accesso all’area, consultazione o download dei documenti clinici e cambio utenza in caso di persone delegate e minorenni (a questo link maggiori informazioni sulla gestione delle deleghe e dei pazienti minorenni).
Le funzionalità e le tipologie di documenti consultabili dall’area referti del portale non hanno subito modifiche.
È possibile consultare i referti di visite, esami di laboratorio, oltre alle immagini degli esami diagnostici (come RX, Risonanze Magnetice e TAC).
Per accedere a quest’area è necessario essere in possesso del proprio ID Humanitas con te che viene fornito in fase di accettazione (si trova nel promemoria cartaceo di ritiro referti).
Per tutte le informazioni sul servizio Humanitas con te, è possibile consultare la pagina web dedicata con informazioni, guide, domande frequenti (FAQ) e brochure digitali.
Per ulteriori informazioni o necessità di supporto è possibile compilare il modulo di assistenza su: https://prenota.humanitas.it/help.
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